“Il passato non è un pacchetto che si può mettere da parte”. Nessuno meglio di Emily Dickinson ha saputo sintetizzare il concetto che anima queste righe di ricordi legati, tanto per cambiare, alla Mens Sana. Bisognerebbe sempre guardare avanti, vero, soprattutto in un momento nel quale tante cose stanno cambiando nel tentativo di rendere solo un ricordo, pessimo, le macerie del 2014 e tutto quello che è successo negli ultimi mesi, ma un’incursione nei meandri della memoria ogni tanto fa bene, soprattutto quando si parla di persone che alla Mens Sana hanno dedicato una parte importante della loro vita.
Spunto di riflessione è un vecchio e polveroso vhs (qualcuno si ricorda ancora di videoregistratori e videocassette?), uno dei tanti, troppi mi dicono in famiglia, che provo a conservare per non mandare definitivamente smarrita quella memoria che le tv locali non hanno mai (o quasi mai) mantenuto in vita nei loro archivi.

Milioni di aneddoti si potrebbero raccontare su Macario (nomignolo affibbiatogli per una somiglianza giovanile con il comico torinese, re della rivista), su quell’autentico covo di mensanini (ma non solo) che era il bar da lui gestito in via dei Rossi assieme alla moglie Laura, sulla sua infatuazione verso George, anzi Giorgio, Bucci, durata ben oltre l’addio alla beneamata con destinazione Fortitudo, dai più maldigerita. Ho negli occhi una sua rincorsa, e chi ha conosciuto Macario sa che non era propriamente la specialità della casa, sulle tribune di Piazza Azzarita ai danni del grande Aldo Giordani, che la settimana prima su Superbasket pare avesse scritto un pezzo poco tenero sul “caldo” che faceva al palasport di Siena in determinate partite, e conservo gelosamente un plico che nel 1996 mi regalò per scrivere uno dei miei primissimi articoli: veniva dagli States, dentro c’erano ritagli di giornale che celebravano l’ascesa politica di Bucci, divenuto proprio in quei giorni supervisor della città di Newburgh, ma pure foto del figlio Ryan, che iniziava a far parlare di sé a livello di high school.
La Mens Sana, e il basket in generale, erano una passione viscerale pure per Adriano Bruttini. La viveva in maniera forse più compassata, vero, ma i suoi giudizi, competenti e taglienti al tempo stesso, godevano di assoluta considerazione fra gli addetti ai lavori, oltre che fra i tifosi: docente universitario di lingua inglese, parlava spesso con gli statunitensi che venivano a giocare a Siena scoprendone lati umani e caratteriali altrimenti off limits in un’epoca lontana anni luce dalle condivisioni sui social networks. Mi torna in mente pure per l’umorismo che sapeva sprigionare, scrivendo: una volta venne al club La Verbena (anch’esso in via dei Rossi, strana coincidenza…) a presentare “Le parolacce”, suo (e del fratello Alberto) dizionario enciclopedico che ben poco aveva da invidiare al labronico “Borzacchini”: siamo in molti, a distanza di quasi 30 anni, ad avere ancora in mente quella godibilissima serata, trascorsa fra battute e considerazioni cestistiche.
Ho un gran bel ricordo di Giuliano Nerli perché è grazie a lui ed alla sua famiglia aquilina (nella quale fu catapultato, dalla provincia, pure il buon Bruno Amerini, non a caso motore per tanti anni del club Rapolano Biancoverde), che ho iniziato a seguire la Mens Sana lontano da Siena. Non esistevano gruppi organizzati nei primi anni Ottanta (se c’era da fare casino nessuno si tirava indietro, chiedete conferma ai vostri babbi, zii e nonni, tuttavia il concetto di ultras doveva ancora essere importato e metabolizzato) e per andare in trasferta ci si affidava a questo signore di mezza età con immancabile borsetto a tracolla che il martedì faceva mettere l’annuncio sul giornale, raccogliendo le prenotazioni per girare l’Italia sotto l’insegna del Siena Basket Club: partenza la domenica mattina in orari da caserma, ma la levataccia era compensata da banchetti e libagioni nei ristoranti tipici delle città che ospitavano i biancoverdi e dal rito, oggi impensabile, di ingresso anticipato al palasport per assistere addirittura al riscaldamento pre-partita. Un modo per scaricare la tensione (o forse per evitare l’abbiocco al momento della palla a due?) prima di intonare, tutti insieme, “Nella Piazza del Campo”. Dopo di che poteva succedere di tutto, anche ritrovarsi a fare a schiaffi fianco a fianco con qualche signora, tutt’altro che spaventata e arrendevole, pur di salvare la pellaccia dall’assedio dei tifosi della Sangiorgese, in cima alla tribuna del palazzo di Porto d’Ascoli.
Ricordo con estremo piacere una lunga chiacchierata fatta, sarà stato il 2005 o 2006, con Maurizio Rosso. Mi raccontò del club Il Campanone, che aveva fondato a metà degli anni Settanta (prima esisteva il Club Biancoverde, presieduto da Luciano Ciapi e attivo anche sul fronte editoriale con la pubblicazione di un bel quindicinale, intitolato Siena Basket) e mi permise la pubblicazione, on line sull’url della vecchia Mens Sana Basket, di alcune foto d’epoca: si inaugurava la sede, lungo il Corso, e a far festa assieme ai tifosi c’erano il grande Alberto Ceccherini, Dolfi e Johnson, eroi di un’epoca irripetibile. “In campo neutro a Napoli – ricordava Rosso - ci ritrovammo in 20, soli contro centinaia di reatini che ce ne dicevano di tutti i colori: alla fine perse la pazienza anche il bòsse (così veniva chiamato proprio Giuliano Nerli, senesizzando la parola boss) e ci fu un po’ di parapiglia, ma sul campo vincemmo e fu una soddisfazione incredibile”.
Come dimenticarsi di Demo Pennatini? Nel momento in cui, corsi e ricorsi storici, la Mens Sana stava per fallire in assenza di una proprietà danarosa e di uno sponsor deciso a sostenerla, fu lui a farsi carico di una raccolta, sposata dal Corriere di Siena, di oltre tremila firme per convincere le istituzioni cittadine a sostenere un progetto di public company. Era già un arzillo settantenne, in quell’inverno del 1995, eppure si mescolava ogni pomeriggio ai tifosi più giovani che scrutavano gli allenamenti della squadra biancoverde, affascinandoli con i ricordi delle partite viste in gioventù alla Casermetta e, perché no, divertendoli con l’immancabile racconto del Palio vinto dalla Giraffa nel ‘36, “quello dell’Impero, quello che si vinse – diceva sorridente - con Bovino salito a cavallo tutto briaco ed arrivato al bandierino con lo zucchino calato sopra gli occhi”. Timbrò il cartellino pure in una giornata di bufera di neve, il piccolo-grande Demo, scendendo non si sa come da Vico Alto e arrivando a destinazione mentre tutta la città si infortunava scivolando sulle lastre di ghiaccio. Lorenzo Marruganti, che all’epoca era team manager, alla sua vista si stropicciò gli occhi più volte e fece sospendere l’allenamento, salendo in tribuna per stringergli la mano. Noblesse oblige.
Ho deciso di chiudere questa carrellata, sicuramente soggettiva e quindi aperta a qualsiasi contributo da parte di chi fin qui ha avuto la pazienza di leggerla, con un amico che se n’è andato giusto 10 anni fa. Si chiamava Riccardo Turillazzi, ma questo lo sapevamo in pochi perché per tutti era sempre e solo Roccia, uno di quei soprannomi-antitesi che solo a Siena siamo in grado di affibbiare scherzando bonariamente sull’aspetto di una persona alla quale si vuole un bene profondo. La vita di Roccia era la curva della Mens Sana (e il suo Brucone, ovviamente), nella quale era stato catapultato dai ragazzi del Petriccio a metà anni Ottanta, una volta tornato nella sua Siena dopo aver trascorso tanti anni a Roma assieme alla famiglia, assorbendo quell’accento romanesco che lo rendeva ancor più personaggio caratteristico: Roccia era la balaustra della nord sempre a cavalcioni, il cappellino a spicchi biancoverdi stile Andy Capp in testa, la sciarpa bianca (un po’ ingiallita per la verità) degli Irriducibili al collo, il fischietto dei playoff dell’Ottantanove contro Sassari in bocca, Roccia era la trasferta solitaria in sella all’Aprilia Af1 50 sotto la pioggia con destinazione Livorno (all’arrivo all’Ardenza gli cadde addosso anche una grandinata…di manate da quelli della Pielle), l’inseparabile stivale texano Camperos lanciato chissà come e chissà perché in piazza a Forlì, il faccia a faccia nel parcheggio del PalaCarnera con un altro Roccia, quello udinese (lui, sì, una forza della natura), concluso dicendo al capo ultrà arancione “Ahò ma che me frega de tutte ste storie de li scontri…io devo annà a vedè la partita, sai che te dico? Forzammmensana!”.
Roccia ha fatto in tempo a vivere la notte di Lione ed i primi due scudetti, altri non hanno avuto la sua stessa fortuna ma è come se fossero sempre dentro quel palazzo che li ha visti protagonisti, a loro modo. E scrutando il quale, si spera possano da lassù divertirsi anche in futuro.
Matteo Tasso