CARLO FINETTI, QUANDO IL BASKET È UN FATTO DI FAMIGLIA

News inserita il 14-10-2022 - Sport Siena

Terza stagione da assistant coach a Udine (serie A2) per il figlio di Luca, storico allenatore mensanino

“Ho scelto di fare l’allenatore di basket perché, fin da ragazzino, avevo il desiderio di essere come il mio babbo”. Carlo Finetti la pallacanestro ce l’ha nel sangue, non è un modo di dire ma un fatto di cromosomi: una passione ereditata dal padre, Luca (ma a Siena, dove un soprannome non si nega mai a nessuno, era per tutti “Fino”), il più grande talent scout che lo sport dei canestri abbia avuto dalle nostre parti (in quei tempi la Mens Sana lanciava Paolo Moretti e Alex Frosini, così per dire…) e l’immancabile punto di riferimento per chiunque allenasse sulla panchina di viale Sclavo (fu vice di Cardaioli, Brenci, Lombardi, Bianchini, Pancotto), scomparso purtroppo troppo presto, nel 2010, quando stava dando un fondamentale contributo, anche come medico sportivo, agli anni più belli della Virtus.
Si è fatto da solo, Carlo Finetti, partendo sì da quella che oggi si chiama Piazzetta Perucatti (“ho avuto una mediocre carriera da giocatore di giovanili – racconta sorridendo – poi a 14 anni ho iniziato a fare l’assistente ai gruppi minibasket virtussini) ma formandosi lontano da Siena, dove nel frattempo la palla a spicchi ha conosciuto un drammatico ridimensionamento a livelli dilettantistici. Lui, invece, a soli 27 anni di età e dopo aver girato l’Italia, si trova oggi sulla panchina dell’Apu Udine, assistente per il terzo anno consecutivo di Matteo Boniciolli, un nome che certo non necessita presentazioni.
Finetti, definirla prodotto del basket senese è una forzatura?
“Sfortunatamente sì. Dico sfortunatamente perché come tutti i senesi mi sento molto legato alle origini, al territorio e alle tradizioni della nostra città, la realtà però è che la mia carriera di allenatore è iniziata a Roma, dove mi ero recato per motivi di studio. Fui chiamato alla Stella Azzurra da Giacomo Rossi, che già mi aveva incoraggiato ad allenare ai tempi della Virtus: un ambiente ideale per un giovane allenatore che vuole investire sulla propria formazione, assieme a due figure che ritengo fondamentali per la mia carriera, Alessandro Nocera e Germano D’Arcangeli”.
Quanta importanza hanno avuto le stagioni trascorse sulla panchina di Empoli?
“È stato l’ingresso nel professionismo, ho avuto l’opportunità di allenare una prima squadra e di seguire gruppi giovanili di medio-alto livello. Un’esperienza responsabilizzante a 360 gradi, organizzando la foresteria, dedicandomi al lavoro individuale che ritengo un mio cavallo di battaglia, muovendo i primi passi nel mondo senior: posso solo ringraziare Francesco Mazzoni e Giovanni Bassi che mi hanno fatto da guida e che hanno creduto fortemente nel sottoscritto, basti pensare che non avevo ancora il patentino per allenare i gruppi Eccellenza”.
Ha lasciato tutto quel lavoro nelle mani di Luca Valentino…
“Un’ottima persona, oltre che un bravissimo coach. Mi sono sentito in dovere di consigliarlo al club, quando si è presentata l’opportunità di andare a Trieste: Empoli oggi è una delle tre migliori società toscane per ciò che concerne l’organizzazione del settore giovanile, le altre due sono Pistoia e Livorno, e Luca è la persona giusta per lavorare in quell’ambiente, una persona super, un vero amico oltre che un ottimo collega”.
Trieste è stata il trampolino di lancio verso Udine?
“Sono andato là per dare una mano a Nocera, che era responsabile del settore giovanile, e ho avuto modo di conoscere Bogdan Tanjevic, col quale ho instaurato un buon rapporto. Grazie a lui ho avuto la grande soddisfazione di far parte dell’Italia Under 18, come assistente allenatore, nel 2019, e sempre in quel periodo ho conosciuto Matteo Boniciolli, che in realtà avrebbe voluto portarmi a Trieste già qualche anno prima”.
Essere assistant coach di un allenatore come, appunto, Boniciolli, cosa significa?
“Sul piano lavorativo è chiaramente una grande occasione per me, che nonostante tutte queste esperienze sono in una fase iniziale di carriera, con tante cose da apprendere e migliorare: Matteo è il top, ha esperienza e grande carisma, a volte anche un pizzico di esuberanza in panchina, che non guasta affatto. C’è poi il lato umano, che è molto pronunciato e che lo rende una persona splendida. Ho scoperto che era molto amico di mio padre, dato che avevano fatto il corso allenatori assieme: un’amicizia pura, della quale mi parla spesso e che mi fa scoprire, quotidianamente, aspetti di lui che non conoscevo appieno. Abbiamo uno staff super, qui a Udine, c’è anche Alberto Martelossi, che svolge sia il ruolo di direttore sportivo sia quello, per dirla all’americana, di associated coach, e da quest’anno abbiamo inserito Gabriele Grazzini, anche lui toscano, di Montecatini”.
Dove vuole arrivare l’Apu Udine?
“La risposta secca è nella massima serie. Gli sforzi della società durante la campagna acquisti, con gli innesti di Mian e Gaspardo, che rappresenta il colpo più importante in tutto il mercato di A2, sono un chiaro segnale dell’obiettivo stagionale. Oltre a questi investimenti che hanno rinforzato il roster, il presidente Pedone e Martelossi hanno però dato continuità a un progetto: dopo quattro finali in due anni, tre delle quali perse (nel marzo di quest’anno Udine ha però vinto la Coppa Italia di A2, storico primo trofeo della società friulana, ndr) avrebbero potuto smantellare squadra e staff e ripartire con un nuovo ciclo, invece hanno puntato sulle conferme e sul potenziamento di un gruppo già costituito. Non ho l’esperienza per dare giudizi, ho però ricordi abbastanza nitidi di quando, da tifoso, seguivo a Siena la Consum.it e ne apprezzavo la pazienza e la programmazione societaria, che erano alla base dei risultati ottenuti in quegli anni dalla Virtus: i contesti e le categorie non sono paragonabili, ma l’idea sì e noi lavoriamo per centrare il risultato. Intanto siamo partiti bene, con due vittorie, cerchiamo domenica prossima la terza a Chiusi”.
Segue, anche se da lontano, il basket senese?
“Certo e con molto interesse, nonostante le vicissitudini non facili degli ultimi anni. Ho il cuore rossoblu, perché ho giocato in Piazzetta Perucatti, ma nelle mie vene scorre anche sangue biancoverde, per ovvie ragioni”.
Che idea si è fatto di una città che dai fasti del passato, non solo quelli della Mens Sana, si ritrova oggi con tre squadre in C Gold?
“Credo che l’impoverimento generale del movimento cestistico, e la totale diaspora di imprenditori e sponsor dovuti ai problemi della Banca, siano stati una mazzata per il basket e per qualsiasi altra disciplina sportiva praticata ad altro livello. L’eccessivo, ma comprensibilissimo, attaccamento al passato, nei primi anni di ripartenza ha fatto compiere alla Mens Sana scelte non impeccabili, con cambi di proprietà e problemi finanziari: è giusto l’attaccamento, è vero che noi senesi vogliamo sempre e solo arrivare primi, ma paradossalmente questa continua ricerca del successo, usando una metafora paliesca, non solo non ci ha fatto arrivare secondi, ci ha portati a essere squalificati e a non correre più”.
Come si riemerge da questo stato di cose?
“Altrove la soluzione sarebbe unire le forze, ma sono il primo a dire che è un discorso utopistico, non applicabile a Siena, dove ciascuno ha la propria identità. Il fatto, però, che tutte e tre le società abbiano ripreso a fare attività giovanile è molto importante, così come quello di avere prime squadre di riferimento: fa bene alla città, al movimento, anche respirare i vecchi sapori dei derbies cittadini. Amo la mia città e vorrei vederla tornare dove merita, ci tengo a dirlo, ma credo che la Mens Sana abbia solo adesso imboccato la strada giusta, facendo attività con la prima squadra in un certo modo e rimettendo in piedi un settore giovanile da zero, anzi da meno due, visto che con i fallimenti tutti i tesserati, o quasi, erano stati persi. È importante aver voglia di risalire, ma è fondamentale non rimanere legati al passato”.
Come può la Mens Sana mettere in soffitta la propria storia?
“Il passato rimane, voglio essere chiaro, anche a me capita di parlare di Jaric, di Rakocevic, di Lavrinovic e di tanti altri campioni e vittorie della Mens Sana quando torno in città e ho occasione di scambiare quattro chiacchiere con tutti i miei amici che hanno fatto parte della Brigata Biancoverde o, prima ancora, del Commandos Tigre, ma il salto di qualità la città e l’ambiente lo faranno soltanto nel momento in cui non proietteranno più il passato nel futuro”.
Facciamolo, però, un tuffo nel passato. Luca Finetti è l’esempio cestistico che Carlo Finetti sta seguendo?
“Racconto sempre che il mio primo approccio col basket sono state le domeniche trascorse al palasport, sdraiato sui gradoni intento a giocare con macchinine e soldatini e completamente disinteressato alle partite che il mio babbo mi portava a vedere. Immagino che avere un figlio maschio a cui proprio non interessa fare il cestista dev’essere stato poco piacevole per uno come lui, che aveva trascorso una vita ad allenare alla Mens Sana”.
Eppure quel seme poi è sbocciato…
“In casa ho sempre sentito parlare di pallacanestro, le telefonate con i procuratori e le trattative di mercato le ho imparate a conoscere prima di tante altre cose che fanno parte dell’infanzia di un bambino, ho trascorso le estati andando a vedere insieme a lui le summer leagues e poi mi sono nutrito per anni dei suoi racconti cestistici. Purtroppo il destino ha voluto che babbo se ne andasse presto, ma la passione che mi ha trasmesso per questo lavoro è forte. Aver seguito le sue orme mi ha senza dubbio responsabilizzato, credo che le persone che, come lui, hanno fatto tanto per le città nelle quali hanno vissuto e lavorato debbano essere ricordate come meritano: rispettarne la memoria, per me, è uno stimolo quotidiano, qualcosa che mi porta a sforzarmi di essere la versione migliore di me stesso, sul campo da basket come fuori”.
Matteo Tasso

Un ringraziamento all’Ufficio Stampa e Comunicazione dell’Apu Udine.
Credit: Foto Lodolo

 

 

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