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I GIGANTI BIANCOVERDI: DARREN DAYE

News inserita il 02-10-2010

Una nuova rubrica che si occupa dei campioni di oggi e di ieri. Questa volta riaffiorano i ricordi del 1992, quando il campione statunitense arriva da Pesaro.

Riuscire a mischiare il sacro (il Palio) col profano (qualsiasi altra cosa non sia il Palio) a Siena è un’impresa ardua. Anzi, qualcosa da sconsigliare vivamente in chi vi si avventuri, incautamente, più che mai in quei fatidici otto giorni che segnano, talvolta addirittura sconvolgono, l’esistenza di ogni contradaiolo che si rispetti.
Ci sono le eccezioni, in realtà. Per esempio quella capitata nella Loggia di Palazzo Comunale, cuore pulsante della Città, il 30 giugno del 1992, giorno della presentazione in biancoverde di Darren Daye: la memoria è un mosaico di immagini a volte sfuocate ma certo quel contrasto tra la moltitudine di fazzoletti variopinti (moltissimi erano dell’Istrice, che quel Palio pareva dovesse vincerlo a mani basse, andò diversamente), la maglia biancoverde con stampato il numero cinque, il colore della pelle nera ed un sorriso bianchissimo a 32 denti fece e, a ripensarci, fa ancora il suo bell’effetto nei miei ricordi.
Era la Mens Sana appena retrocessa a conclusione del ciclo-Lombardi, la prima con Ferdinando Minucci al timone (anche se solo nel ruolo di general manager) e aveva bisogno di un nome di grido per scaldare il cuore dei tifosi dopo la delusione cocente appena patita. Minucci pescò dal mare di Pesaro questo campione dal talento cristallino e lo convinse a scendere in A2, ritrovando il coach Bianchini che nelle Marche lo aveva già eletto a suo pupillo e provando a costruirgli attorno il progetto di immediata risalita. Progetto che andrà in porto, ma non subito. Ne parleremo.
Darren Keefe Daye arriva a Siena quando ha già 32 anni. E’ un’ala dal fisico tutt’altro che scolpito ma le preponderanza di muscoli ed elevazione, in quel periodo, non l’ha ancora spuntata sulla tecnica ed i fondamentali. E’ nato a Des Moines, Iowa, il 30 novembre del 1960 e cestisticamente si è formato a Ucla nei primissimi anni Ottanta, quando Ucla è un marchio di fabbrica per qualsiasi giocatore. Cinque anni fra i Pro (Washington, una toccata e fuga a Chicago, poi i Celtics) e nel 1988 lo sbarco in Italia, con la Scavolini guidata alla conquista dell’Italia e dell’Europa, sfiorando anche una vittoria storica al McDonald’s Open contro Knicks, salvatisi dopo un supplementare dalla gogna di una sconfitta clamorosa. Tant’è che alla “prima” di Daye in viale Sclavo arrivano due pullman di tifosi pesaresi con sciarpe e magliette celebrative (“Siena Daye, 20 settembre 1992”) per il loro campione, che da noi fatica invece un po’ ad ambientarsi: è di un altro passo rispetto agli altri suoi compagni, non ci piove, ma proprio per questo la scintilla pare non scoccare mai e quella stagione finisce per essere più una corsa ad ostacoli che un cammino verso la gloria. Il tempo per godersi la partecipazione alle final four di coppa Italia, impresa da annali per la Mens Sana, poi il campionato scivola via e la promozione ai playout la prende la Fortitudo, che non a caso ce ne aveva dati 33 già ad ottobre in regular season.
Quando si riparte, siamo nel 1993, la situazione appare difficile. E’ cambiato il coach, Cesare Pancotto, al posto della gazzella Lampley è arrivato il roccioso Thornton (Bob, non Bootsy) ma soprattutto la squadra sembra corta. E corta, di risultati, rimane fino alla primavera successiva. Daye vivacchia, quando prende palla spalle a canestro, si avvicina e tira dai cinque metri ne mette sempre due (il tiro da tre proprio non gli piace, invece) ma pare indolente, svogliato, a meno che qualcuno non lo sfidi apertamente: succede il 20 marzo del 1994, a Varese, quando si prende da solo 25 tiri (la Mens Sana, complessivamente, arriva a 47…) e segna 38 punti nell’uno contro uno infuocato con Arian Komazec (37 punti e 52 di valutazione), poi però si riaddormenta fino ai playout. Lì qualcosa cambia, il perché lo lasciamo alle voci ed alle illazioni (si parlò di un premio promozione promesso nell’intervallo della partita di Fabriano, con la Mens Sana sotto di 17 e poi rocambolescamente vittoriosa di 2), fatto sta che Darren Daye diventa il “cerbiatto” atteso per più di un anno. Gioca dieci partite da favola, vincendone diverse da solo, e pure quando non è in serata di grazia si ritaglia spazio e tempi giusti per segnare il canestro più importante della stagione, contro Cantù: senza i 34 punti di Vidili, l’Olitalia (era lo sponsor mensanino) non sarebbe mai arrivata a giocarsi il pallone decisivo sul 75-75, vero, ma quel pallone non poteva passare che dalle mani di Daye, che con la sua solita azione in avvicinamento, appoggiandosi col sedere al difensore e poi buttandosi indietro in sospensione, imbucò nel canestro brianzolo e dette virtualmente ai suoi la promozione in A1. Centrata poi a Padova quattro giorni dopo.
La mission a Siena di Darren Daye si era esaurita lì. In A1 poteva starci ma avrebbe forse voluto guadagnare troppo per il budget della Mens Sana di allora e Minucci fu saggio a guardare altrove. Il tempo di presenziare alla festa per la promozione indossando un improponibile, per altri, smoking viola, di regalare al sottoscritto la sua maglia numero cinque (una reliquia preziosa), di farci salutare Tamara, la moglie, Austin e Alissa, i figli (per la cronaca, oggi Austin gioca nella Nba a Detroit) e il suo viaggio, iniziato in una mattina di Palio anziché di basket, proseguì lontano da Piazza del Campo.

Matteo Tasso

 

 

 

 

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